Intelligenza artificiale: timori e salute mentale

Intelligenza artificiale: timori e salute mentale

Una delle innovazioni tecnologiche che più ha rivoluzionato il mondo è sicuramente l’intelligenza artificiale, anche conosciuta come IA o AI dall’inglese, Artificial Intelligence. Definiamo l’IA come la capacità di una macchina o computer, di sostituire le capacità cognitive umane di ragionamento, apprendimento, pianificazione e creatività, sulla base di una rete infinita di algoritmi e modelli matematici. Ma è corretto affermare che una macchina possa potenzialmente sostituire un essere umano? Quale impatto può avere questa consapevolezza sulla mente umana? In questo articolo cercheremo di rispondere ai seguenti quesiti.

Sebbene l'intelligenza artificiale abbia condotto l’umanità a enormi progressi nell’ambito scientifico e medico, come in cure mediche del cancro e malattie degenerative, il fatto di non sapere fin dove possa spingersi la potenza dell’algoritmo crea non poco timore psicologico nella coscienza della popolazione generale. Diversi studi, infatti, dimostrano una stretta connessione tra intelligenza artificiale e salute psicologica, sottolineando il timore riguardo i possibili effetti nocivi dell’IA. Un sondaggio del centro studi statunitense Pew Research Center rileva, ad esempio, come dal 2021, il 52% degli individui partecipanti alla ricerca si definisce più timoroso che entusiasta nei confronti delle nuove tecnologie. Questi dichiarano inoltre che, in un rapporto tra ansia ed eccitazione, nonostante ritengano l’IA utile a garantire nuove cure mediche, si definiscono più spaventati dal fatto che un algoritmo possa sostituire la mano di un medico reale, avendo quindi il potere di prendere decisioni di vita o di morte in sala operatoria.
Oggi si parla infatti di “ansia tecnologica” o “Tecnostress”, per indicare quel senso di paura
che si prova al pensiero di essere sopraffatti da qualcosa di più intelligente di noi, da un sistema in grado di rimpiazzare il grado di giudizio umano, indicando cosa sia giusto e cosa sbagliato e spingendo gli individui a prendere decisioni di conseguenza.
Questa tipologia di stress sembra aumentare a causa della forte digitalizzazione in tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana: deleghiamo i nostri impegni quotidiani a un computer che agisce al posto nostro. Se da un lato ciò appare utile e di grande efficienza, allo stesso tempo provoca un timore inconscio, dovuto alla sensazione di star perdendo il controllo diretto delle proprie azioni. Ciò accade, ad esempio, con lo smart working che, in particolar modo dopo l’epidemia di Covid-19, ha sostituito il lavoro “vis à vis”, in una modalità digitale e rapida. Diversi studi presentano, però, come anche quella che sembra semplice pigrizia di alzarsi dal letto per uscire di casa e andare a lavoro, a lungo andare possa trasformarsi in vere e proprie patologie, prima fra tutte la depressione, spesso accompagnata da sintomi a livello fisico e mentale, quali attacchi di panico, mal di testa e mancanza di concentrazione. A proposito di ciò, di recente numerosi studi psicologici odierni dimostrano la connessione tra la salute mentale individuale e l’estrema digitalizzazione della vita quotidiana. Questo fenomeno è osservabile analizzando alcuni dei nuovi disturbi psicologici che, pur non essendo ancora entrati nei manuali diagnostici, portano le persone a isolarsi dal mondo esterno e hanno un impatto sempre più grande nella società. Parliamo ad esempio, dei hikikomori, patologia che porta le persone che ne soffrono a “stare in disparte” e a ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, rimanendo rinchiusi dentro la propria abitazione senza avere alcun contatto con la realtà esterna. Ciò che spaventa è, appunto, questo cambiamento delle relazioni interpersonali, per cui oggi gli individui preferiscono parlare a una chatbot, ossia a un'intelligenza artificiale in grado di comunicare e rispondere alle richieste delle persone, in maniera apparentemente più convincente di quanto farebbe una persona reale. Pur tenendo conto dei vantaggi di questa tecnologia, spesso se ne sottovaluta la fusione pericolosa tra reale e artificiale. Confondere il mondo virtuale con la realtà, infatti, conduce all'isolamento e causa deresponsabilizzazione: se per fare ogni caso necessito di un supporto elettronico, ogni problema non è più di mia responsabilità. Questa sorta di derealizzazione ci porta a vivere in un mondo incontrollato, che non siamo più in grado di gestire direttamente: preferiamo affidarci a un computer e fornire i nostri dati personali a una macchina, che a sua volta li affida all’algoritmo, il quale agisce per conto nostro, senza che ne abbiamo piena consapevolezza.
Inoltre, la psicologia sociale ci parla anche del “bias dell’algoritmo”, ossia lo spostamento di responsabilità rispetto all’utilizzo delle nuove tecnologie, verso una responsabilità condivisa, che ci rende meno consapevoli dell'effettivo utilizzo che ne facciamo ma anche sempre più manipolabili. Diminuisce così, la consapevolezza degli strumenti che utilizziamo, cosa che mette in discussione il tema generale della responsabilità umana: quali sono i rischi del riporre la nostra vita in una macchina che non possiede una coscienza?

Infine, nell’ambito psicologico e psicoterapeutico le incognite riguardo l'intelligenza artificiale sono diverse. Primo tra tutti, c’è il grande quesito: la figura dello psicologo potrà mai essere sostituita da una macchina non senziente? La gente accetterebbe di intraprendere un percorso psicoterapeutico con un robot, invece che con una persona in carne ed ossa? Ad oggi la risposta sembra essere no. Diversi studi dimostrano, infatti, che tra i ruoli meno soggetti al rimpiazzo da parte dell’IA sono quelli meno suscettibili all’automazione, e che richiedono quindi, una forte componente comunicativa. Per quanto possa essere intelligente un algoritmo, mancherà sempre una capacità cognitiva che solo gli esseri umani hanno: provare empatia. Ciò significa che, pur conoscendo la risposta adatta ad ogni domanda, un computer non sarà mai in grado di capire quale sia o meno il momento più opportuno per porre un quesito al paziente, cosa che rappresenta una delle più alte capacità di un buon psicoterapeuta.

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